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28- [Lecce] Festival Cinema Palestina

15° FESTIVAL DEL CINEMA EUROPEO

LECCE, MULTISALA MASSIMO
28 APRILE - 3 MAGGIO 2014


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Film › Cinema Euromediterraneo: Palestina

La Palestina attraverso il cinema


È importante che una città ricca di storia mediterranea come Lecce apra il suo sguardo su una parte del “Mare Nostrum”, ormai quasi invisibile, dimenticata, spesso cancellata dai grandi network televisivi e dalla stampa internazionale. Parliamo della Palestina, almeno di quell’area che dopo decenni di occupazione militare non è ancora uno Stato.

Inserire in questa edizione del Festival del Cinema Europeo una Rassegna del Cinema Palestinese è prima di un fatto culturale, un gesto di solidarietà. Ma è anche un ulteriore riconoscimento, da parte di un Festival Europeo della vitalità, della ricchezza della cinematografia palestinese.

Come si potrà vedere dalla selezione di films, documentari e cortometraggi, il cinema palestinese non è più quello solo militante, ma si apre, a partire degli anni ’80, a una nuova fase dando un volto più umano, più quotidiano, più immaginativo della società in Cisgiordania e Gaza, occupati da Israele nel ’67 senza, tuttavia, allontanarsi da una dimensione legata al dramma della Palestina. In quegli anni era, infatti, maturata una generazione di registi palestinesi formatasi in esilio, il più importante dei quali è, senza dubbio, Michel Khleifi, che ha studiato in Belgio. Basti ricordare il suo lungometraggio La Memoria Fertile (1980) sulla condizione femminile nella società palestinese, che fu il primo film girato interamente all’interno della “linea verde” dei territori occupati. Nozze in Galilea (1987) di Khleifi, sulle umilianti condizioni di vita sotto occupazione militare, fu il primo film palestinese di successo internazionale (Premio FIPRESCI a Cannes) ed aprì così la possibilità ad investimenti europei nella nascente cinematografia.

Khleifi allora osservò: “Noi facciamo un cinema terzo: né hollywoodiano, né d’autore nel senso de l’art pour l’art (l’arte per l’arte), ma una ricerca, un lavoro estetico sull’immagine stessa, con un filo narrativo libero” – e prodotto in modo indipendente.

Su questa onda si sono inseriti, con successo sul piano internazionale, anche autori come Rashid Masharawi con Haifa e Ticket to Jerusalem, Hani Abu Assad con Il matrimonio di Rana, Annemarie Jacir con Sale di questo mare e Elia Suleiman con Cronaca di una sparizione e Intervento Divino.

Nel corso degli anni ’90 si è affacciata una nuova generazione di cineasti, nata e cresciuta nella Palestina occupata. A differenza del cinema della diaspora, questa generazione mette al centro spesso la persona, la sua soggettività psicologica, sociale e culturale – nel contesto della occupazione militare – ma sviluppa anche accenni critici nei confronti della società palestinese stessa. Tra i registi della “seconda generazione” vi sono Tawfik Abu Wael, Nizar Hassan, Abdel Salam Shehade, Najwa Najjar, Alia Arasoughly, Azza el-Hassan e Sobhi al Zubaidi – per citarne solo alcuni. Nei loro films spesso realtà e finzione, documentario e film a soggetto si intrecciano in una combinazione di sensibilità poetica ed analisi cruda della realtà sociale e politica.

Sullo sfondo rimane una sfida coraggiosa contro la violenta ed illegale occupazione della terra palestinese con la costruzione del Muro e con le drammatiche condizioni di vita a Gaza, che il nuovo cinema palestinese denuncia, cosciente dell’importanza del cinema come elemento di resistenza pacifica e culturale.
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SCARICA IL PROGRAMMA
http://www.festivaldelcinemaeuropeo.com/2014/wp-content/uploads/sites/2/2014/04/15FCE-PROGRAMMA.pdf

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Tra lotte, sogni e dura realtà la Palestina diventa film

Michel Khleifi, che nel 1980 ha filmato La memoria fertile – due donne, l’intellettuale di Ramallah e l’operaia di Nazareth, nella loro pesante quotidianità su cui si riversano le enormi contraddizioni della Palestina occupata – doveva essere uno dei nomi di spicco presenti a Lecce nell’ambito del Festival del Cinema Europeo, per partecipare all’incontro sul Cinema palestinese: il sogno di una nazione. La sua sedia, però, è rimasta vuota. Per oltre una settimana ha atteso il documento che gli avrebbe permesso di rientrare nella Westbank, ma non è mai arrivato. Michel avrebbe, comunque, condiviso le parole di Mai Alkaila, ambasciatrice dello Stato della Palestina in Italia. «Pur se viviamo in situazioni del tutto negative – ha dichiarato aprendo i lavori della tavola rotonda – oggi proprio il nostro cinema si trova in una fase più costruttiva e rivolta al futuro. Oggi sono almeno 150 i registi impegnati sul fronte di nuove produzioni, una diversità di talenti che attestano una grande creatività. Che si è assunta una responsabilità precisa: difendere il popolo palestinese in una prospettiva umanitaria e politica. Significa difendere la nostra cultura, che ha radici profonde, e la nostra identità, aggredita ogni giorno». 

A Lecce sono stati proiettati alcuni recenti capolavori: Il matrimonio di Rana di Hany Abu-Assad, del 2002, uno dei primi film palestinesi a essere arrivato a Cannes; Un biglietto per Gerusalemme di Rashid Masharawi, sguardo ravvicinato sulla vita di ogni giorno nella Palestina occupata con nuove forme di resistenza civile; Alia Arasougly e un titolo chiarissimo, Questo non è vivere, in cui intervista donne comuni sui temi della pace e della guerra. E poi i più noti, Elia Suleiman e Mohammed Bakri, autori di riferimento del nuovo cinema palestinese. «Non c’è dubbio che ciascuno di questi conservi la propria personalità – spiega Monica Maurer, che ha curato la Settimana del Cinema Palestinese per il Festival –. Però è chiaro che in tutti loro, rispetto al passato, l’obiettivo della semplice liberazione della Palestina si è molto ridimensionato. Oggi si mira a una maggiore concretezza. Sanno di lavorare senza uno status preciso perché non appartengono a uno Stato vero e proprio. Questo significa non avere diritti e leggi internazionali che ti proteggono, dunque lavorare in una situazione perennemente critica. E poi, sia chiaro: non esiste un cinema esclusivamente palestinese, perché senza i produttori internazionali non si avrebbero i fondi per realizzarlo. E qui nascono ulteriori problemi, soprattutto di controllo e addirittura di autocensura».

Lo denuncia Sahera Dirbas, regista indipendente come lo sono tante sue agguerrite colleghe palestinesi, una quindicina riunite in un’associazione che si chiama "Cinemalife", oggi impegnate sul fronte del recupero della trasmissione della storia e la difesa dei diritti delle donne. «Le censure toccano anche l’uso della lingua: ci viene spesso imposto di non usare l’espressione "campo profughi" ma "luogo affollato". Nonostante questo il cinema palestinese è particolarmente vitale: riusciamo a girare documentari con maggiore facilità, perché possiamo trovare storie di vita in ogni angolo di strada e perché viviamo in situazioni che sono del tutto al di fuori della normalità».

I registi e le registe palestinesi hanno acquisito col tempo una prospettiva di speranza, elemento prima coperto dalla miseria e dall’umiliazione. «Oggi sicuramente la portavoce di queste aspettative è Najwa Najjar – precisa Monica Maurer – che ricorda quanto sia stata disastrosa per la società palestinese la seconda Intifada, quando l’immagine dei palestinesi è stata ridotta a una banda di terroristi ed è stato liquidato tutto il tessuto di società civile faticosamente costruito negli anni. Nel 2008, con Melograni e Mirra, ha capito che per sopravvivere doveva avere un obiettivo, per lei il cinema, col quale dar voce alla realtà in una prospettiva non più di odio. Prima di lei, Tawfiq Abu Waal aveva girato il durissimo Luce alla fine del tunnel, in cui affrontava le varie forme di prigionia cui sono costretti migliaia di palestinesi. È il capostipite di una giovane generazione di cineasti nata e cresciuta nella Palestina occupata che ha acquisito un nuovo senso, non più ideologico, di resistenza culturale attraverso il cinema».

fonte:
Avvenire.it

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